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La prozia tredicenne

Una bimba con un gomitolo e dei ferri da calza: passatempo e gioco dei tempi andati!Era nata agli inizi del secolo....no, non questo ma quello appena trascorso, e per quanto possa scavare a ritroso nei miei ricordi infantili, me la ricordo comunque e sempre già anziana: una vecchierella piccola e minuta sempre sorridente, sempre allegra, sempre affettuosa.
Era la zia di papà e di lei avevo sentito dire in famiglia che a tredici anni aveva avuto i brüt fever, le febbri maligne, ed era rimasta menomata, dicevano che era "diversa", che non era come gli altri......

Certo che non lo era!

Quante altre signore ultrasettantenni avete visto giocare a nascondino o a saltare con la corda insieme ai nipotini?!
Quante altre avete sentito ridere dei loro acciacchi stagionali, degli occhiali che sono costrette a portare, della dentiera che non è capace di masticare come i denti di prima?!
L'adoravo!
E i periodi che trascorreva ospite della nostra casa, a Pasqua, a Natale, durante l'estate, erano per me una vacanza nella vacanza perchè con la sua inesauribile vivacità portava lo scompiglio nella routine domestica e risollevava il morale a tutti noi.
Ci insegnava, senza saperlo, a godere delle piccole cose di tutti i giorni, quelle cose che troppo spesso diamo per scontate, così abituati alla loro presenza da non vederle nemmeno più: il frullatore per fare i frappè, lo scaldino elettrico, persino il mangiaodori profumato! Tutto era nuovo, divertente e meraviglioso ai suoi occhi di vecchietta tredicenne!

E' stato durante un'estate particolamente afosa, quando il caldo del primo pomeriggio ci dissuadeva dall'avventurarci fuori, che le ho chiesto d'insegnarmi a fare i centri.
Non so se era per abitudine, non so se era per l'incapacità a restare inattiva o piuttosto per mantenere la promessa di una consegna, ma ogni volta che si sedeva, quando noi bambini guardavamo la televisione o facevamo i compiti di scuola, tirava fuori da un vecchio sacchetto di plastica da supermercato (chissà da chi l'aveva avuto, lei che al supermercato non ci andava mai?!) una manciata di aghi da calza a due punte e incominciava a sferruzzare: era così veloce che sembrava facesse finta di lavorare e se non avessi visto la trina formarsi ed allargarsi man mano, probabilmente avrei pensato che si trattava solo di uno dei suoi soliti giochi o di una ginnastica manuale per ingannare il tempo!
Quando giudicava di aver tessuto abbastanza di quella ragnatela di filo sottile, prendeva l'uncinetto e chiudeva i punti tirandoli giù da ciascuno dei ferri (che di solito erano 5 ma a volte anche di più!) poi buttava nel sacchetto quel mucchietto informe, che solo l'inamidatura e la stiratura con gli spilli avrebbero fatto diventare un vero centrino, e ricominciava da capo...

Alla fine del periodo che passava da noi aveva realizzato un buon numero di centrini che, una volta tornata nella casa di riposo dove viveva, avrebbe consegnato alla suora perchè li mettesse in vendita nelle mostre della parrocchia. In cambio ne riceveva qualche tavoletta di cioccolata o delle arance, a seconda della stagione o, se il lavoro consegnato era particolarmente importante, anche una modesta mancia che riciclava a noi nipoti quando tornava a trovarci.
Sentivo la mamma e la nonna discutere di questa cosa: la mamma non avrebbe voluto che accettassimo quelle mance perchè sapeva che la prozia era più povera di noi e diceva che avrebbe potuto spendere per se stessa quel denaro; la nonna, che della prozia era la sorella, sosteneva invece che regalarci quei soldi la faceva sentire importante e felice e che l'avremmo mortificata rifiutandoli....il compromesso al quale si arrivava era che noi ragazzi prendevamo la mancia (subito stornata sul libretto di risparmio, perchè non erano tempi in cui si poteva scialare!) e quando la nostra ospite se ne andava la mamma le riempiva la valigia di pacchetti di zucchero e caffè, calze di naylon e canottiere di cotone e...qualche altro pezzo di biancheria che tralascio d'elencare per decenza....

Se ne tornava così all'istituto di provincia dove abitava e che aveva un nome altisonante Pia Casa Incurabili (con l'aggiunta, forse, di qualche titolo di santo o benefattore che non ricordo) ma che lei chiamava semplicemente casa pia con il tono di chi dice casa mia...perchè in fondo era lì che viveva da quando la malattia aveva per lei fermato il tempo, le aveva tagliato le ali impedendole di spiccare il volo verso l'adolescenza e la maturità, verso una vita "normale" come quella che avrebbero avuto le sue sorelle, verso un futuro di servetta, operaia o commessa al quale era destinata dal suo essere figlia di povera gente in tempi socialmente ancor poco evoluti...verso le preoccupazioni e le gioe, i dispiaceri, le guerre, le privazioni, i sacrifici, i sogni e i desideri.....

Un'infelice? No, non credo che lo fosse....inconsapevole, piuttosto: la vita le è scivolata addosso senza segnarla, senza cambiarla....
Di lei mi restano i tre quaderni dalle pagine ingiallite dove prendeva nota dei punti da lavorare: diritto, rovescio, accavallato...mi ha lasciato un tesoro che non sapeva nemmeno di possedere......
E il ricordo.
Di una risata allegra e un po' tremolante come un trillo di campanelle.
Di una camerata con un armadio a due ante pieno di calze di naylon e biancheria nuova, mai usata per non sciuparla....

© Rossana Radaelli-05.08.06